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Il profumo come narrazione personale: intervista alla profumiera Giulia Brigliadori

Un articolo di Marco Martello

Giulia Brigliadori, profumiera di Farotti Essenze, racconta il suo percorso in un mondo fatto di molecole, ricordi e immaginazione. Dall’infanzia in campagna al premio Aromata, passando per la creazione di “Spirit of Romagna” e la passione per le note orientali, questa intervista è un viaggio tra emozioni, ricerca creativa e identità olfattiva.

Buona lettura!

Innanzitutto, qual è l’odore che ti riporta alla tua infanzia?

Ho passato molto tempo della mia infanzia dai miei nonni in campagna, aiutandoli in diverse attività come raccogliere l’uva per fare il vino, le fragole e le pesche. L’odore dolce e succoso di questi frutti rimarrà per sempre ben impresso nella mia mente.


Giulia, cosa ti ha spinto a intraprendere una carriera da profumiere?

A differenza di molte persone la mia non è stata una scelta premeditata, ma è successo in modo casuale e inaspettato. Ho conosciuto la realtà Farotti grazie a un tirocinio tramite l’Università di Chimica di Rimini. A quel tempo sognavo di laurearmi e lavorare nell’industria farmaceutica. Durante il tirocinio però ho scoperto un mondo magico che mi ha incantato e appassionato subito, tanto da non farmelo più lasciare.


Ciò detto, qual è il ricordo olfattivo a cui sei più legata?

L’odore verde di erba tagliata, mi ricorda la campagna della mia infanzia, i pomeriggi di spensieratezza durante le vacanze estive, la pace che solo la natura sa darmi.


Da otto anni a questa parte, lavori come profumiere in Farotti Essenze. Quali sfide hai dovuto affrontare lungo il tuo percorso nel mondo dei profumi? E quali conquiste ti hanno riempito di orgoglio, gioia e soddisfazione?

Sembrerà banale ma ogni giorno il nostro lavoro ci richiede di entrare in empatia con il cliente, carpire il messaggio e le emozioni che vuole trasmettere tramite il suo profumo e tradurlo in note olfattive, se non è una sfida questa!

Sono fortunata perché ho fatto diverse conquiste che mi hanno riempito di gioia e soddisfazione ultimamente. Una di quelle di cui vado più fiera è la creazione del profumo “Spirit of Romagna”, lanciato da Farotti per sostenere le vittime dell’alluvione in Romagna di maggio 2023. In particolare, il ricavato è stato devoluto al centro socio-riabilitativo “Ca’ Santino” che ha subito diversi danni durante l’alluvione.


Pensi che il tuo approccio personale al profumo sia cambiato da quando sei entrata a far parte di quest’industria?

Assolutamente sì. Prima di entrare in Farotti si può dire che non indossassi profumi. Quei pochi che usavo erano profumi molto dolci e vanigliati. Questa mia passione per la vaniglia si è evoluta nei profumi orientali e fioriti ricchi, che oggi sono diventati anche un po’ la mia firma olfattiva.


“Obscurus”, il profumo con il quale hai partecipato all’edizione 2025 del Premio Aromata, ti ha valso un importante riconoscimento, ovvero il Persolaise Award. Ci puoi raccontare in che modo è nata questa tua creazione?

Sono sempre stata affascinata dal mondo dark fantasy e Dracula è uno dei miei romanzi preferiti. Ho deciso di partecipare ad Aromata proprio per avere l’opportunità di dedicargli un profumo, che avevo già in mente: doveva essere oscuro, misterioso, ma anche sensuale e proibito. Così è nato Obscurus, un profumo legnoso di cuoio dove emerge una nota dolce di ciliegia e amarena.


Giulia, quali sono le materie prime che ti affascinano di più? E quali sono, invece, gli elementi che identificano la tua firma olfattiva?

Come dicevo sono attratta da tutte le materie prime che costituiscono l’accordo orientale: note ambrate, resine e assolute, legni morbidi, note gourmand. Nell’ultimo periodo si sono aggiunti alla lista anche i fiori narcotici come gelsomino, tuberosa e osmanto. Queste sfaccettature sono sempre presenti nelle mie creazioni, tanto da essere diventate la mia firma olfattiva.


Tornando al processo creativo, come sai quando è arrivato il momento di mettere la parola fine a un processo che è potenzialmente infinito e condividere il frutto del tuo lavoro con il resto del mondo?

Per fortuna il profumiere non svolge tutto il lavoro da solo, per avere un’opinione più oggettiva collabora con altre figure come gli evaluator e/o il direttore creativo, che aiutano a interpretare il brief e a porre la parola fine allo sviluppo della fragranza. In generale, sottopongo a queste figure il profumo quando per me ha raggiunto un grado di equilibrio e maturazione soddisfacenti e quando corrisponde a quello che mi ero immaginata.


Quale consiglio daresti a chi come te vorrebbe intraprendere la carriera di profumiere?

Studiare tanto ed esercitarsi ancora di più! Essendo un lavoro pratico e “artigianale”, credo che non ci sia altro modo per imparare questo mestiere se non mettendo continuamente le mani in pasta. Solo così si imparano le interazioni tra le molecole, quali accostamenti funzionano meglio, quali sono i dosaggi migliori, ecc.


Per concludere, ci puoi dare un piccolo assaggio di ciò a cui stai lavorando?

Sono diversi i progetti a cui sto lavorando, tutti cavalcano l’onda delle tendenze del momento: i profumi gourmand e fruttati. Essendo, come avrete capito, tra le mie note olfattive preferite, sono molto contenta di lavorare a questi trend!


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Marco Martello

Laureato in “Comunicazione e Psicologia” all’Università degli Studi di Milano-Bicocca e specializzato in “Fashion Direction: Brand & Communication Management” presso il Milano Fashion Institute, Marco Martello è un collezionista di fragranze, nonché un esperto di comunicazione scritta con un’esperienza pluriennale nel mondo dell’editoria indipendente. Nel corso degli anni, oltre a collaborare con testate nazionali e straniere, ha svolto l’attività di copywriter e correttore di bozze sia nel settore del luxury che in quello del fashion, ampliando le sue competenze tecniche e consolidando la sua conoscenza delle dinamiche che sottendono i processi di comunicazione contemporanei. Oggi Marco ricopre il ruolo di Managing Editor & Beauty Director della rivista indipendente “The Greatest”, e si dedica all’insegnamento nell’ambito della comunicazione di moda e beauty in alcuni tra i più prestigiosi istituti italiani

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L’ arte di farsi ricordare: guida al branding olfattivo per le aziende 

l’odore è un potente mago che ti trasporta per migliaia di miglia attraverso tutti gli anni che hai vissuto

La citazione sopra arriva da Helen Keller – scrittrice, attivista e insegnante statunitense di inizio ‘900 – catturando con rara sensibilità il legame profondo tra memoria e olfatto. Ogni fragranza è una chiave invisibile capace di aprire stanze dimenticate della nostra memoria.

Ateneo dell’Olfatto studia da anni questo potere, trasformando l’acquisto di un prodotto in un’esperienza emotiva e multisensoriale. Questa filosofia prende forma concreta nel marketing olfattivo e si sublima nel branding olfattivo: l’arte, e insieme la scienza, di imprimere un’identità unica e riconoscibile ai brand attraverso l’olfatto. Un’impronta sensoriale che parla silenziosamente di valori, atmosfere, stile.

Il branding olfattivo dialoga direttamente con il sistema limbico, dove nascono emozioni e ricordi. È qui che si radica la forza di una fragranza: nel lasciare un segno profondo e duraturo, molto più di qualsiasi logo o slogan. Uno studio del Sense of Smell Institute ha evidenziato che ricordiamo un odore con una precisione del 65% anche a distanza di un anno, mentre il ricordo di un’immagine tende a dissolversi del 50% già dopo tre mesi. 

In questo articolo ti raccontiamo perché sempre più brand scelgono di raccontarsi attraverso l’universo sensoriale del marketing olfattivo — e come anche la tua azienda può intraprendere questo percorso. 

Se vuoi approfondire ulteriormente, esplora il nostro corso dedicato al marketing olfattivo e lasciati guidare in un viaggio tra emozioni e identità. 

Buona lettura!


L’unicità racchiusa in una molecola

Scegliere un profumo personalizzato significa tradurre l’essenza del proprio brand in una forma intangibile ma indelebile. Lo scent marketing – così chiamato dalle nostre controparti d’oltreoceano – permette di guardare all’identità aziendale da una nuova prospettiva, cogliendone le sfumature emotive e trasformandole in note olfattive capaci di emozionare. 

È qui che i profumieri si fanno artigiani della memoria: attraverso la loro maestria, un brand può parlare direttamente al cuore del proprio pubblico. Il profumo può accompagnare momenti simbolici, come festività o ricorrenze, rafforzando ogni anno l’associazione emotiva tra marca ed esperienza. Ma può anche diventare un dono, un oggetto esclusivo da portare sempre con sé. Una fragranza ben studiata, raffinata e coerente, aumenta il prestigio percepito e rende un marchio più desiderabile. 


Chi crea profumi, crea mondi 

Per realizzare un profumo su misura, esistono diverse realtà. Le maison di profumeria artistica, legate al mondo del lusso, raccontano storie sofisticate attraverso composizioni originali e packaging evocativi. 

Ci sono poi i laboratori boutique, eccellenze artigianali che operano con filiere trasparenti e ingredienti naturali, offrendo una cura sartoriale ad ogni creazione. 

Infine, gli studi creativi di nicchia: team multidisciplinari capaci di coniugare arte e olfatto in progetti su misura, immersivi e concettuali. Qui il profumo diventa parte di un’esperienza totale, da vivere prima ancora che indossare. 

In Italia, Farotti Essenze incarna questo savoir-faire con passione e rigore, offrendo servizi di private label da oltre cinquant’anni. 

Ma il cuore pulsante di ogni creazione resta l’incontro intimo tra il brand e il naso profumiere. Ed è lì che comincia il vero viaggio. 


Il linguaggio invisibile della fragranza 

La creazione di un profumo personalizzato segue un processo tanto artistico quanto strategico. Tutto inizia da un colloquio approfondito, in cui il cliente racconta la propria identità, i propri valori, le atmosfere che desidera evocare. 

Su queste basi nasce un moodboard olfattivo: una mappa sensoriale che traduce emozioni e concetti in note profumate. Questo strumento guida la scelta delle materie prime e definisce il tono della fragranza: può essere avvolgente e sensuale, luminosa e frizzante, calda e rassicurante. 

Il profumiere seleziona poi le note, componendo un racconto olfattivo capace di sedurre con le note di testa, affascinare con quelle di cuore e lasciare una scia memorabile con le note di fondo. Ogni accordo diventa così parte del DNA emozionale del brand. 


Quando il profumo incontra il pubblico 

Una fragranza personalizzata per un marchio trova la sua massima espressione quando incontra le persone. In eventi esclusivi, come un gala o una presentazione, diffonderla nell’aria o donarla agli ospiti amplifica il valore simbolico dell’esperienza e lascia un ricordo indelebile. 

Molti hotel di alta gamma hanno scelto il branding olfattivo per creare atmosfere familiari e raffinate, capaci di accogliere prima ancora della parola. Lo stesso vale per i brand di moda, che inseriscono le proprie fragranze tra i capi di collezione, rendendole parte integrante dell’identità stilistica.  

Quando Dunkin Donuts ha diffuso l’aroma del caffè nelle fermate dell’autobus, ha aumentato del 16% le visite e del 29% le vendite. Un esempio emblematico, che mostra come l’olfatto incida sul comportamento d’acquisto in modo sottile ma potente (cnbc.com). 

I profumi portano benefici anche in ambienti come gli uffici e gli ospedali. Secondo la Harvard Business Review, l’utilizzo di fragranze migliora la produttività e la creatività fino al 31%, mentre uno studio riportato da Mood Media ha dimostrato che i pazienti di una struttura sanitaria statunitense esposti a un aroma di vaniglia hanno sperimentato un livello di ansia inferiore del 63% rispetto agli altri ospiti (Ansa.it). 

Il marketing olfattivo consente di ottenere risultati soddisfacenti proprio perché gli odori, elaborati inconsciamente dal sistema limbico del cervello umano – responsabile anche delle emozioni – impattano in maniera positiva su elementi quali apatia, depressione e stress. Inoltre, ogni fragranza viene percepita diversamente da ciascun individuo, generando emozioni del tutto soggettive e creando un legame unico tra il brand e il singolo. 

Il branding olfattivo è una strategia che coinvolge, fidelizza e distingue. 

Perché il profumo, come un ricordo prezioso, ha bisogno solo di un istante per restare per sempre. 

Se desideri scoprire come dare voce al tuo brand attraverso l’olfatto, i corsi di Ateneo dell’Olfatto ti aspettano. Oppure, lasciati ispirare dagli articoli del nostro blog e immergiti in un mondo fatto di molecole ed emozioni. 



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In punta di naso – Narici e cervello si parlano oppure no?

Un articolo di Anna D’Errico

Perché è così difficile trovare le parole per descrivere un odore?
Da secoli l’olfatto è considerato un senso “minore” e il suo legame con il linguaggio è oggetto di dibattito tra neuroscienziati e linguisti. In questo articolo, Anna D’Errico ci accompagna in un viaggio tra anatomia, cultura e percezione per capire se naso e cervello parlano davvero la stessa lingua.

Buona lettura!


Annusi qualcosa e ti sembra di riconoscerlo, ti è familiare; annusi ancora, poi l’irritazione: che cos’è questo odore? C’è un velo oscuro, una nebbia che rende la sua presenza un po’ vaga, cerchi di ricordare, di ritrovare un’immagine, una parola.

Quella parola manca e il nome dell’odore resta lì, sulla punta del naso, inespresso.

Ti è mai capitato? È in effetti un fenomeno molto diffuso e così comune che per molto tempo gli scienziati hanno creduto ci fosse una precisa ragione anatomica e fisiologica: le aree cerebrali del linguaggio e dell’olfatto non comunicano, non si parlano. Due vicini di condominio che non si sono mai incontrati. 

Ma è davvero così?


Abbagli del passato

L’olfatto nel corso dei secoli è stato spesso non solo considerato un senso minore, al pari del tatto, ma relegato alla sfera della sensualità animale e di una conoscenza “fisica”, legata al corpo e alla carne più che all’intelletto. A riprova di ciò, proprio la constatazione di come trovare parole adeguate per descrivere un odore sia difficile: gli odori sono effimeri e le sensazioni che evocano spesso molto emotive, legate a sentimenti e ricordi. Nulla di adeguato a un’indagine oggettiva della realtà. Così, per esempio, il filosofo Immanuel Kant lo aveva definitivamente relegato a senso suggestionabile e di cui meglio non fidarsi: Noi esseri umani saremmo trasportati e distratti troppo facilmente da gusto e olfatto, e le reazioni viscerali che ne derivano ostacolerebbero il pensiero logico.

A conferma di tali affermazioni, nel diciannovesimo secolo gli studi anatomici e le nascenti neuroscienze sembrarono trovare prove tangibili del fatto che l’olfatto fosse poco importante per la cognizione umana. In particolare, fu Paul Broca a dare una chiara definizione degli esseri umani come esseri microsmatici (ovvero con un olfatto poco sviluppato), alla luce dei suoi studi anatomici sul cervello dell’uomo e di altri animali. Se il suo nome suona familiare è proprio perché, ironia, un’area del cervello importante proprio per la comprensione e produzione linguistica porta il suo nome: l’area di Broca, appunto, nel lobo frontale del cervello.


Breve nota anatomica

Dal punto di vista anatomico l’olfatto è diverso dagli altri sensi: dal naso, dove sono localizzati i recettori olfattivi, partono nervi cranici (primo nervo cranico) che vanno al bulbo olfattivo, prima stazione cerebrale dell’input olfattivo, e poi direttamente a diverse aree cerebrali che, dal punto di vista evolutivo, sono antiche: la corteccia olfattiva e le aree limbiche (ippocampo, amigdala, corteccia entorinale). Queste connessioni, diversamente da ciò che avviene per esempio con vista e udito, saltano una stazione cerebrale chiamata talamo, che funziona un po’ come un centralino per i segnali in entrata e uscita dal cervello. Inoltre, la corteccia olfattiva ha un’organizzazione diversa da quella di altre aree come, dicevamo, quella visiva. In generale, la corteccia è la parte del cervello umano più sviluppata (chiamata spesso in gergo comune “materia grigia”) è quella che con l’evoluzione si è sviluppata e ingrandita di più rispetto agli altri animali, ed è formata, come in tutti i mammiferi, da 6 strati diversi. La corteccia olfattiva però ha una struttura più primitiva, simile a alla corteccia dei rettili, con solo tre strati. Infine, come osservò lo stesso Broca, le dimensioni del bulbo olfattivo rispetto a quelle del resto del cervello sono minuscole se comparate a quelle di altri animali come, per esempio, topi o cani.

Tutte queste osservazioni, che dal punto di vista anatomico sono corrette, ci raccontano tuttavia solo una parte della storia. Alla luce degli studi neuroscientifici più recenti, oggi sappiamo che seppure le dimensioni relative del bulbo olfattivo siano inferiori a quelle di altri animali, l’essere umano compensa molto probabilmente con capacità cognitive più elaborate e dimensioni maggiori delle altre aree cerebrali coinvolte nel messaggio olfattivo. Infatti, l’olfatto umano è tutt’altro che scarso. 

Resta tuttavia aperta la questione del linguaggio.


Diatribe che sanno di pop-corn e cannella

Dicevamo all’inizio, irritazione: la parola che sfugge. Perché, fondamentalmente, alla base di questi interrogativi tra anatomia e fisiologia del cervello c’è questa domanda: Come si fa a trasformare le sensazioni e ciò che percepiamo in qualcosa di comprensibile anche agli altri? 

Se ti dico che ho visto un tramonto “rosso fuoco” come faccio a essere sicura che nella tua testa si formerà la stessa immagine di “rosso fuoco” che ho visto io? Come faccio a sapere che il tuo rosso è come il mio? Non puoi. Ma il linguaggio in questo un po’ aiuta.

Per quanto ogni persona sia un mondo a sé e le percezioni sensoriali siano estremamente variabili e soggettive, grazie anche al linguaggio e a quel insieme di abitudini, tradizioni, modi di vivere, fare, abitare ecc. che chiamiamo “cultura” riusciamo quasi sempre ad avere dei riferimenti comuni. Si chiamano convenzioni, in parte riflesse anche nella lingua che parliamo e, fondamentalmente, ci permettono di capirci e comunicare. Questo è un passaggio importante: il linguaggio che usiamo per descrivere ciò che vediamo, ascoltiamo, tocchiamo, annusiamo, è anch’esso un costrutto sociale, una convenzione arbitraria, ci serve per capirci. Muta, evolve e, soprattutto, non è oggettivo ma riflette appunto un “modo di descrivere” il mondo, se vogliamo. D’altra parte anche le nostre percezioni sono soggettive: il rosso che per noi è “fuoco” per un’altra persona potrebbe avere un tono leggermente diverso e per un altro animale addirittura non essere rosso; quel “rosso” insomma non è fuori ma nel nostro cervello, esattamente come l’odore (non è questa la sede, ma dipende da un misto di genetica, fisica, recettori olfattivi e come il cervello funziona). Solo che il colore ci viene subito a parole e l’odore no.

Ed ecco come torna il discorso sulla divisione fra “sensi nobili” (vista e udito) e sensi “animali” (tatto e olfatto) fatta nella tradizione classica occidentale. Il linguaggio che abbiamo costruito intorno all’olfatto è relativamente povero e poco accurato rispetto a quello sviluppato per descrivere toni, forme e colori. Ci abbiamo prestato più attenzione, vi abbiamo dedicato nel corso della storia più studi e ci siamo abituati a parlare descrivendo il mondo con termini visivi.

Questa è una delle spiegazioni (semplificate) del perché culturalmente l’olfatto è, come è stato definito dalla storica Diane Ackerman un “senso muto”. Dal punto di vista neuroscientifico la questione è ancora fonte di dibattitto e in realtà non si è ancora raggiunti un consenso scientifico completo. Esistono al momento due teorie principali per spiegare la disconnessione olfatto-linguaggio, due ipotesi non del tutto auto-escludenti. La prima, portata avanti da scienziati come Jonas Olofsson and Jay Gottfried, sostiene che le aree cerebrali del linguaggio non abbiano connessioni abbastanza dirette e complesse con le aree olfattive. Inoltre, il fatto stesso che la corteccia olfattiva, come dicevamo sopra, abbia una struttura più primitiva, rispetto, per esempio, alle aree visive ultra-specializzate, porterebbe a pensare che l’olfatto segua un’altra modalità. L’odore lo “senti” dentro prima di riuscire a nominarlo. 

La seconda ipotesi, invece, avanzata negli ultimi anni da Asifa Majid e altri neurolinguisti, propenderebbe per una carenza più culturale che neuroanatomica. La scienziata, conducendo studi linguistici e sulla capacità di nominare gli odori presso popolazioni diverse da quelle europee e che parlano inglese, come gli Jahai in Indonesia, ha riscontrato un linguaggio olfattivo più elaborato e astratto rispetto ai primi. Ciò suggerirebbe che le difficoltà a descrivere gli odori non siano strutturali, ma apprese. 

Per esempio, la parola in jahai cŋǝs (pronunciata “cheng-us” in inglese) viene usata per descrivere l’odore di cannella, ma anche quello di aglio, cipolla, caffè, cioccolato e cocco. Hanno cioè un termine olfattivo astratto che descrive questi diversi odori, così come noi usiamo la parola “rosso” per riferirci a oggetti diversi: mela, vestito, tramonto. Altre parole, invece vengono usate per descrivere l’odore che noi associamo ai pop-corn e loro invece associano ad alcuni animali selvatici e certe piante. 


Conclusioni in sospeso…

Chi ha ragione? Al momento la questione è aperta e si propende per una teoria che in qualche modo unifichi queste due. Alla base della diatriba vi è un altro fatto ancora non del tutto chiarito: come si forma un odore nella nostra testa?

Secondo Majid, l’odore, e quindi la sua descrizione, sarebbe una caratteristica che il cervello attribuisce a ciò che annusa, come facciamo con i colori. Per Olofsson e colleghi, invece, l’odore nel cervello diventa l’oggetto stesso, cioè nel momento in cui dico che quella cosa “sa di pop-corn” per il cervello è come se quel odore fosse pop-corn. E a sostegno di questa ipotesi vi sono molti dati scientifici. 

La cosa interessante è che mela, vestito e tramonto possono in certe situazioni essere di colore rosso, una qualità abbastanza precisa, e sappiamo a quale grandezza fisica corrisponda – nello spettro della luce visibile e lunghezza d’onda. E nel caso di questi odori? Si sarebbe portati a pensare che le popolazioni citate da Majid siano in grado di notare e percepire meglio le varie sfaccettature olfattive di cui è composto un oggetto-odore. Cosa hanno in comune aglio, cipolla, cioccolato e caffè? Ci sono alcune molecole e sfaccettature in comune, ma perché loro le sentono e noi no? allenamento? Genetica? Un misto di entrambe le cose?

Ancora non lo sappiamo per certo; abbiamo la risposta in punta di naso.


Riferimenti bibliografici:

Olofsson JK, Gottfried JA. The muted sense: neurocognitive limitations of olfactory language. Trends Cogn Sci. 2015;19(6):314-321

Majid A. Human Olfaction at the Intersection of Language, Culture, and Biology. Trends Cogn Sci. 2021;25(2):111-123. 

atropoulos G, Herman P, Lansner A, Karlgren J, Larsson M, Olofsson JK. The language of smell: Connecting linguistic and psychophysical properties of odor descriptors. Cognition. 2018;178:37-49.Deroy O. Olfactory abstraction: a communicative and metacognitive account. Philos Trans R Soc Lond B Biol Sci. 2023;378(1870):20210369.


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Anna D’Errico

Anna D’Errico è neuroscienziata, divulgatrice scientifica e artista performer con una grande passione: l’olfatto. Attraverso il suo progetto The Neurosmellist, intreccia ricerca, arte e scrittura per raccontare il mondo dei profumi e delle sensazioni invisibili, rendendolo accessibile a tutti.

Ha pubblicato libri come Profumo di niente — indagine empatica su cosa accade quando si perde l’olfatto — e Il senso perfetto, che esplora la scienza dietro la percezione.

Promuove workshop esperienziali, corsi online e progetti artistici che mettono il naso al centro della riflessione tra mente, cultura e corpo.

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Profumi sostenibili: il lato green dell’industria della profumeria

Un articolo di Marco Martello

Nel suo articolo per il nostro blog, Marco Martello ci guida alla scoperta del lato più sostenibile dell’industria del profumo: flaconi ricaricabili, ingredienti naturali o riciclati e nuove pratiche produttive stanno trasformando un settore da sempre legato al lusso in una frontiera sempre più green.

Buona lettura!


Il profumo incontra la sostenibilità

Flaconi ricaricabili, materie prime naturali, processi di lavorazione sostenibili, e attività vol­te alla promozione della causa ambientalista. L’attenzione verso il pianeta Terra e la sua protezione non è mai stata così forte, e l’industria del profumo non è rimasta indifferente alle richieste di consumatori sempre più attenti e informati. Scopriamo insieme il lato più verde della profumeria contemporanea!


Un interesse crescente… ma compatibile con l’ambiente?

Quello per il profumo è un interesse ormai generalizzato. Vista l’enfasi che negli ultimi anni è stata posta sulla causa ambientalista, sorge però spontaneo chiedersi se un tale interesse possa convivere con l’attenzione nei confronti dell’ambiente e della sua protezione.

Molti sono i brand che hanno cercato di trovare una risposta a questa particolare domanda, offrendo delle soluzioni con le quali ridurre o, se non altro, contenere l’impatto ambientale di una delle industrie più dinamiche e floride dei nostri giorni.


Naturale o sostenibile? Facciamo chiarezza

Prima di entrare nel merito delle proposte sopraccitate, è necessario fare un passo indietro e soffermarsi, anche solo per un istante, su un aspetto che sembra essere motivo di non poca confusione, ovvero la differenza tra naturale e sostenibile.

Con il primo di questi due aggettivi, si fa riferimento a fragranze che sono composte da sole materie prime di origine naturale, come ad esempio gli oli essenziali che vengono estratti da fiori e piante. L’aggettivo “sostenibile” ha, invece, un significato più ampio, che abbraccia l’intero sistema produttivo, prendendo in considerazione sia il modello gestionale complessivo di un’azienda che l’impatto ambientale di ogni fase del processo di creazione di un profumo.

A tal proposito, è importante sottolineare che, oltre a rappresentare un potenziale pericolo per la salute a causa degli allergeni contenuti in numerose materie prime di origine naturale, alcuni ingredienti richiedono un impiego di risorse a dir poco ingente per la loro coltivazione e successiva lavorazione, e non si prestano quindi a una produzione sostenibile.

Un esempio può essere rappresentato dall’olio essenziale di rosa, poiché servono ben cinque tonnellate di petali per ottenere un kilo di olio. In questo caso e in molti altri ancora, le molecole di sintesi rappresentano un valido alleato, ed è quindi importante sfatare il mito che vede tutto ciò che è prodotto di laboratorio come qualitativamente inferiore.

In definitiva un profumo naturale non può essere definitivo “eco-friendly” a meno che non siano rispettate condizioni ben precise. È per questa ragione che bisogna fare uno sforzo per andare oltre le etichette, e valutare sempre ciò che un’azienda fa nel concreto per essere definita “sostenibile”.


Esempi virtuosi: il caso Hima Jomo

Tra i brand di nicchia che impiegano materie prime di origine naturale, adottano un approccio eco-friendly, e si dedicano ad attività che hanno come obiettivo la promozione della responsabilità sociale e ambientale spicca Hima Jomo, marchio fondato nel 2022 da Vittoria Jiaxin Liu e Randry Glorieux, traendo ispirazione dal territorio dell’Himalaya.

“Da sempre, aderiamo ai principi di trasparenza e sincerità”, ha dichiarato Vittoria Liu, Co-Founder di Hima Jomo. “Ci impegniamo a dare il nostro contributo al pianeta Terra e alla sua salvaguardia, compiendo passi che possano fare la differenza.

Nell’orientarsi verso un brand, i consumatori dovrebbero chiedersi se il marchio in questione ha un impatto positivo sull’ambiente e la comunità, non limitandosi a rincorrere un appagamento sensoriale di breve durata.

Le nostre fragranze sono il risultato di un profondo dialogo con la natura, la storia e la cultura dell’Himalaya. Ogni flacone di profumo racchiude, infatti, al suo interno il nostro rispetto per questo territorio e la nostra dedizione alla sostenibilità”.


Anche i grandi brand abbracciano il cambiamento

Il tentativo di abbracciare la sostenibilità non riguarda soltanto i marchi di nicchia o artistici, ma anche quelli della grande distribuzione.

Tralasciando le maison che si sono focalizzate sul packaging, riducendo l’impiego di plastica e offrendo la possibilità di ricaricare il proprio flacone di profumo a un prezzo ridotto per ridurre gli sprechi, alcuni tra i brand commerciali più apprezzati dal pubblico hanno, per l’appunto, lanciato delle iniziative volte a promuovere la salvaguardia del pianeta Terra.

Kenzo Parfums, ad esempio, ha scelto di sostenere e arruolare come volto delle proprie campagne degli ambassador che hanno fatto propria la causa ambientalista, come ad esempio la floricoltrice e flower activist franco-giapponese Charlotte Masami Lavault, la quale ha creato la prima flower farm della capitale francese.


Nuove frontiere: ingredienti riciclati e upcycled

Tornando agli ingredienti contenuti all’interno delle fragranze che vaporizziamo sulla nostra pelle, da qualche anno a questa parte nel mondo della profumeria vi è la tendenza a utilizzare materie prime upcycled.

Un esempio? Il mandarino impiegato dal marchio francese Liquides Imaginaires per la sua nuova collezione “The Imaginarium”, il quale è ottenuto da un’estrazione simultanea di polpa, succo e scorza.

Analogamente, Etat Libre d’Orange, brand che si è fatto conoscere e apprezzare per il suo approccio fortemente innovativo, ha creato “Les Fleurs Du Dechet – I Am Trash”, profumo realizzato con il solo uso di ingredienti riciclati, collaborando con Givaudan e Ogilvy per chiedere perdono a Madre Natura e far sapere al mondo che è arrivato il momento di agire.


Il futuro è (sempre più) verde

Prevedere la direzione nella quale si muoverà il mercato della bellezza in un futuro non troppo lontano è un compito più difficile di quello che si potrebbe immaginare, ma una cosa sembra essere certa: l’ambiente non sarà un aspetto marginale, bensì uno dei primissimi elementi da tenere in considerazione, non solo nel porre le basi per la creazione di un nuovo marchio ma anche nello sviluppare fragranze per brand già esistenti, che dovranno adattarsi alle esigenze di una società in rapida evoluzione per non rimanere schiacciati sotto il peso di una competizione sempre più stringente.


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Leggi altro dal Blog di Ateneo dell’Olfatto


Marco Martello

Laureato in “Comunicazione e Psicologia” all’Università degli Studi di Milano-Bicocca e specializzato in “Fashion Direction: Brand & Communication Management” presso il Milano Fashion Institute, Marco Martello è un collezionista di fragranze, nonché un esperto di comunicazione scritta con un’esperienza pluriennale nel mondo dell’editoria indipendente. Nel corso degli anni, oltre a collaborare con testate nazionali e straniere, ha svolto l’attività di copywriter e correttore di bozze sia nel settore del luxury che in quello del fashion, ampliando le sue competenze tecniche e consolidando la sua conoscenza delle dinamiche che sottendono i processi di comunicazione contemporanei. Oggi Marco ricopre il ruolo di Managing Editor & Beauty Director della rivista indipendente “The Greatest”, e si dedica all’insegnamento nell’ambito della comunicazione di moda e beauty in alcuni tra i più prestigiosi istituti italiani

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Profumo e identità: come una fragranza può raccontare chi siamo

Un articolo di Marco Martello

In questo articolo, Marco Martello esplora come le fragranze abbiano smesso di coprire gli odori per iniziare a comunicare identità, autenticità e libertà. Dall’oud alle collezioni olfattive, un viaggio nel potere narrativo del profumo.

Buona lettura!


Il profumo come strumento di controllo

Con l’atto del profumarsi si è a lungo cercato di riportare l’ordine in uno stato di caos, cancellando qualsiasi traccia di animalità e, al tempo stesso, domando l’imprevedibilità della natura. Oggi, le cose stanno cambiando. In una società guidata dall’innovazione tecnologica, dalle realtà virtuali e dall’Intelligenza Artificiale, il profumo rappresenta, infatti, la risposta al nostro bisogno di ritrovarci, con la nostra imperfetta autenticità.


L’olfatto tra repressione e rivalutazione

Per molto tempo il profumo ha servito lo scopo di cancellare o, se non altro, nascondere da nasi indiscreti, qualsiasi traccia di animalità. È ironico, a pensarci bene, che questo compito sia stato affidato proprio al mondo delle fragranze. Dopotutto l’olfatto è stato a lungo bistrattato a causa del suo essere un senso primitivo, nonché una chiave di accesso al lato animale in ciascuno di noi. Ciò detto, negli ultimi anni si è assistito a un importante cambio di rotta, con l’impiego di materie prime e la creazione di profumi che hanno rinobilitato tutti quegli odori comunemente visti come sgradevoli. Parlando d’ingredienti, un esempio può essere rappresentato dal popolarissimo oud, che nella sua forma più pura ha un sentore “animalico”, fecale e stallatico. A essere cambiato, però, non è soltanto il contenuto dei flaconi che troneggiano sui comodini, sulle mensole e sui tavolini delle nostre case, ma anche il motivo che ci spinge a far uso delle fragranze in questione: si è infatti passati dall’indossare un profumo per “sapere di buono” al farlo per inviare un messaggio più profondo, che ha a che vedere con la nostra identità personale.


Profumarsi come rituale di autenticità

Quella in cui viviamo è un’epoca ultra digitalizzata, e in questo particolare contesto storico anche coloro i quali hanno sempre rivolto il proprio sguardo al futuro avvertono il bisogno di autenticità, di riscoprire il proprio corpo attraverso gli odori che lo caratterizzano e riappropriarsi così di una dimensione che sembrava ormai essere perduta. L’atto del profumarsi ha, quindi, assunto le sembianze di un rituale in grado di avvicinarci al nostro vero io, rivestendosi di un significato che profuma di liberazione.


Dall’unicità al guardaroba olfattivo

Per fare un passo indietro e tornare al rapporto che ciascuno di noi intrattiene con il mondo delle fragranze, un elemento di rottura, se non altro rispetto al passato, consiste nella scarsa, per non dire scarsissima, fedeltà che si riserva al profumo. Se un tempo vi era la tendenza a pensare che per ogni persona vi fosse un profumo e uno soltanto, oggi l’idea di costruire una collezione o, per dirlo in altre parole, un proprio guardaroba olfattivo è molto più comune di quanto si possa immaginare. Del resto, è il modo in cui concepiamo le relazioni interpersonali a essere cambiato drasticamente. Quella stessa fluidità che abbiamo, per così dire, instillato nei rapporti che instauriamo con le persone che si trovano intorno a noi e con le quali interagiamo nel quotidiano può essere individuata nel modo in cui compiamo un atto performativo che ci avvicina a un sapere profondo, misterioso e, a tratti, oscuro. Anche chi fatica a concepire l’infedeltà come una possibile soluzione a una ricerca che può rivelarsi problematica dovrà ammettere che la nostra identità è in continua evoluzione e difficilmente una fragranza potrà racchiudere in sé un mondo incredibilmente complesso e sfaccettato, rappresentandoci in ogni sfumatura della nostra emotività.


La voce del profumo come specchio dell’identità

Il mercato dei profumi è un mare magnum, le cui acque sono a dir poco impetuose, ma nell’affrontare la scelta di una fragranza ci dovremmo ricordare che ogni profumo ha una sua voce e, se scelto con la dovuta attenzione, può raccontare agli altri chi siamo o chi vorremmo essere tanto quanto l’abito che indossiamo, se non forse di più.


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Marco Martello

Laureato in “Comunicazione e Psicologia” all’Università degli Studi di Milano-Bicocca e specializzato in “Fashion Direction: Brand & Communication Management” presso il Milano Fashion Institute, Marco Martello è un collezionista di fragranze, nonché un esperto di comunicazione scritta con un’esperienza pluriennale nel mondo dell’editoria indipendente. Nel corso degli anni, oltre a collaborare con testate nazionali e straniere, ha svolto l’attività di copywriter e correttore di bozze sia nel settore del luxury che in quello del fashion, ampliando le sue competenze tecniche e consolidando la sua conoscenza delle dinamiche che sottendono i processi di comunicazione contemporanei. Oggi Marco ricopre il ruolo di Managing Editor & Beauty Director della rivista indipendente “The Greatest”, e si dedica all’insegnamento nell’ambito della comunicazione di moda e beauty in alcuni tra i più prestigiosi istituti italiani

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Marche italiane di profumi: l’eccellenza olfattiva del “Made in Italy”

L’Italia, culla dell’arte profumiera

L’Italia, con la sua inestimabile eredità culturale e la sua posizione geografica strategica, ha da secoli tessuto un legame indissolubile con l’arte profumiera. Un viaggio attraverso le sue fragranze è un’immersione nella storia, un percorso sensoriale che affonda le radici in civiltà antiche e fiorisce nel Rinascimento, fino a raggiungere le vette dell’innovazione contemporanea.

L’influenza di queste tradizioni si diffuse in Italia, dove Greci e Romani perfezionarono l’arte della profumeria. Nell’Impero Romano, i profumi erano parte integrante della vita quotidiana, utilizzati nelle terme per il relax e durante i banchetti per creare un’atmosfera di otium. Si preparavano unguenti, acque aromatiche, profumi e polveri odorose. Fu però nel Rinascimento che l’Italia divenne un vero e proprio epicentro dell’innovazione olfattiva, segnando l’esplosione della profumeria moderna. L’introduzione dell’alcol nella composizione dei profumi rivoluzionò il settore, rendendo le fragranze più leggere e persistenti.

Le corti italiane, in particolare quella fiorentina dei Medici, furono fucine di questa arte. Un aneddoto emblematico riguarda Caterina de’ Medici, la nobile fiorentina.

Le antiche spezierie e i monasteri erano veri e propri laboratori di sperimentazione, dove si tramandavano e si perfezionavano tecniche di distillazione e miscelazione. Un esempio lampante di questa maestria è l’italiano Gian Paolo Feminis, la cui formula dell’Acqua Admirabilis, un alcool profumato prossimo al 95%, è considerata la prima Acqua di Colonia.

Questo percorso storico rivela una costante capacità dell’eccellenza olfattiva italiana di assorbire influenze, innovare tecniche e mantenere viva la propria arte, anche quando i riflettori globali si spostavano altrove. Questa profonda radicazione e la dinamica evoluzione hanno permesso alla profumeria italiana di essere una tradizione vivente e in continua trasformazione.

Le grandi Maison storiche in Italia: custodi del patrimonio olfattivo italiano

Le grandi maison storiche italiane non sono solo nomi altisonanti. Queste case profumiere hanno saputo custodire e tramandare un’arte raffinata, legando indissolubilmente il proprio nome a luoghi e leggende che ne definiscono l’anima.

Otto secoli di storia, tra monaci e alchimia

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By Didier Olmstead – Own work, CC BY-SA 4.0

Una delle fragranze più iconiche della storia italiana della profumeria è certamente L’Acqua della Regina. Questo profumo, che nel 1533 incantò tutta Europa per un motivo che scopriremo tra poco, nacque in una profumeria che in principio, nel 1221, era una farmacia monastica. Fu, poi, aperta al pubblico nel 1542, sotto il patrocinio del Granduca di Toscana. I frati domenicani, veri specialisti in medicina, alchimia e aromi, furono i primi “nasi” di questa illustre istituzione. 

Tra le loro creazioni più celebri vi è, appunto, l’Acqua della Regina, un racconto agrumato ed elegante creato nel 1533 dal profumiere fiorentino Renato Bianco, che si narra fu iniziato a quest’arte dai frati di Santa Maria Novella. Questa fragranza fu il dono di nozze di Caterina de’ Medici al futuro re Enrico II di Valois, un profumo che incantò la corte di Francia e che ancora oggi è un simbolo della maestria e del legame profondo della maison con la storia.

Immagine che contiene bottiglia, Bottiglia di vetro, interno, bevandaIl contenuto generato dall'IA potrebbe non essere corretto.
By Partecipazioni Commerciali Produzione s.r.l.

La storia della profumeria italiana è intrisa del fascino dei suoi luoghi. Ovviamente, non poteva mancare Capri, un’isola che ha ispirato leggende e profumi. Si racconta che nel 1380, il priore della Certosa di San Giacomo, per accogliere la Regina Giovanna d’Angiò, preparò un infuso con i fiori più belli dell’isola. Dopo tre giorni, l’acqua acquisì una fragranza misteriosa, riconosciuta da un religioso esperto di alchimia come il “Garofilium silvestre caprese”, dando vita al primo profumo di Capri.

Questa leggenda divenne realtà nel 1948, quando le antiche formule furono riscoperte. Un chimico piemontese, con il permesso del Papa, fondò quello che fu definito “il più piccolo laboratorio del mondo”. Le fragranze che nascono su quest’isola sono composti da elementi provenienti esclusivamente dalla natura caprese, trasformati in accordi olfattivi unici. 

La storia contemporanea della profumeria italiana si intreccia anche con l’evoluzione del Made in Italy e delle sue grandi maison di lusso. All’inizio del Novecento, la tradizione profumiera era ancora artigianale e locale, ma dopo il 1920 il settore iniziò a modernizzarsi.

Nel secondo dopoguerra, con il boom economico, i principali stilisti italiani colsero l’opportunità di tradurre la propria estetica in fragranze distintive. Nacque così il fenomeno del couturier-parfumeur: marchi di moda aprirono la strada – Gucci debuttò con No.1 nel 1974, seguito da Gianni Versace con Gianni Versace pour Homme nel 1984– inaugurando una scia di profumi firmati che definirono l’eleganza italiana.

Da quel momento, praticamente ogni casa di moda italiana propose la sua visione olfattiva, arricchendo gli scaffali delle profumerie con creazioni destinate a lasciare il segno. Tra le fragranze più iconiche che hanno fatto la storia spiccano vere e proprie leggende del profumo.

Acqua di Parma – Colonia, nata nel 1916, è un’acqua di colonia fresca e agrumata che sarebbe stata destinata a diventare un classico senza tempo, emblema di stile e della “dolce vita” all’italiana. Negli anni ’80 sono fioriti nuovi classici: Trussardi Uomo (1983) con le sue note raffinate di lavanda, patchouli e cuoio incarna la tradizione e il lusso italiano, mentre L’Homme (1984) di Versace esprime opulenza e fascino in chiave orientale-legnosa, una fragranza audace e seducente come l’estetica della casa milanese.

The current packaging

By Freud – Own work, CC BY-SA 3.0

Verso la fine del decennio, Roma (1988) di Laura Biagiotti conquistò il pubblico con un bouquet orientale-speziato ispirato alla Città Eterna, racchiudendo in gocce di profumo tutta la magia e l’eleganza di Roma. Gli anni ’90 hanno visto il trionfo internazionale di Giorgio Armani Acqua di Giò (1996), un profumo acquatico e agrumato ispirato al Mediterraneo, così rivoluzionario e fresco da diventare uno dei più venduti al mondo.

All’alba del nuovo millennio, Dolce&Gabbana Light Blue (2001) ha raccontato in chiave olfattiva un’estate italiana a Capri, con un’esplosione di agrumi seguiti da un cuore di fiori bianchi e un fondo sensuale di muschi e ambra. Queste creazioni – dalle colonie intramontabili alle Eau de Parfum seducenti – rappresentano tappe fondamentali del percorso della profumeria italiana di lusso: ciascuna ha segnato un’epoca, portando nel mondo il glamour e la creatività italiana in gocce di profumo.

La profumeria indipendente dal 1920 a oggi

Parallelamente ai grandi marchi, lontano dai riflettori della moda, l’Italia ha coltivato una vivace tradizione di profumeria indipendente e artistica. Fin dagli anni ’20 e ’30, antiche officine farmaceutiche e piccole botteghe artigiane – da Firenze a Capri – hanno custodito formule segrete e ingredienti locali, continuando a creare profumi in edizioni limitate per intenditori. In queste botteghe aleggiava un fascino d’altri tempi: flaconi di vetro soffiato con fragranze alla violetta e all’iris ispirate a ricette secolari, mentre colonie agrumate e talcate diventavano rituali quotidiani per una clientela affezionata. Negli ultimi decenni del Novecento, è rinata la profumeria artistica italiana: piccoli marchi indipendenti guidati da nasi visionari hanno sperimentato liberamente, combinando tradizione e avanguardia.

Queste fragranze di nicchia si sono fatte strada puntando su qualità artigianale ed emozione olfattiva pura. I loro nomi evocano mondi suggestivi e storie da scoprire. Ad esempio, Black Afgano (2009): un estratto oscuro e misterioso che celebra l’aroma proibito dell’hashish, un profumo intenso “cupo, dalla scia memorabile e dalla potenza estrema”. In contrasto, la poesia retrò di Teint de Neige (2000) ammalia con la sua delicatezza talcata: il solo nome (“tinta di neve”) richiama ciprie vintage e notti al chiarore di luna, e la fragranza ne restituisce l’essenza nostalgica e soffice, avvolgendo chi la indossa in un’aura intima e raffinata. Acqua di Sale (1996) invece cattura l’anima del Mediterraneo più autentico: è un viaggio sensoriale fra onde salmastre e macchia costiera, così realistico ed evocativo da essere considerato una delle fragranze marine italiane per eccellenza.

Queste creazioni indipendenti – insieme ad altre dal nome fiabesco o artistico – hanno conquistato gli appassionati in tutto il mondo grazie alla loro originalità e all’eccellenza dei materiali. Senza bisogno di ostentare il nome di un grande marchio, i profumi di nicchia italiani parlano il linguaggio della memoria e dell’immaginazione: ogni essenza è un racconto olfattivo, che spazia dalla misteriosa resina orientale alle brezze costiere, dai bouquet floreali classici alle ardite note gourmand. Questa duplice anima della profumeria italiana, commerciale, da un lato, e artistico-indipendente dall’altro, rappresenta i due volti di una stessa medaglia. In entrambi i casi, al centro troviamo creatività, audacia e passione: l’Italia continua a lasciare un’impronta indelebile nel panorama olfattivo mondiale, rendendo ogni profumo un’esperienza evocativa e intramontabile.

La profumeria di nicchia italiana sta ridefinendo il “Made in Italy” non solo attraverso la qualità e la produzione locale, ma con un’autenticità che scaturisce da una visione artistica personale, da un’attenzione meticolosa alle materie prime spesso legate al territorio e da una narrazione profonda.

Questo approccio trasforma il profumo da semplice fragranza a una vera e propria “esperienza olfattiva” e “opera d’arte”, rispondendo al desiderio crescente dei consumatori di prodotti che raccontano storie e che permettono un’espressione più intima e meno massificata della propria personalità.

Il potere dello storytelling olfattivo: fragranze che narrano storie

La profumeria italiana si distingue per la sua innata capacità di comunicare attraverso le fragranze, trasformandole in vere e proprie opere d’arte olfattive che raccontano storie ed emozioni. Lo scent marketing, in questo contesto, sfrutta il potere evocativo dei profumi per creare un legame emotivo profondo tra il brand e il consumatore.

La ricerca olfattiva si spinge oltre la semplice gradevolezza, cercando di “intrappolare un odore buono o meno buono che sia”, trasformando odori canonicamente considerati “tabù o sgradevoli” in fragranze affascinanti. Questa audacia è un’espressione dell’imprinting artistico dei marchi più piccoli, che osano sfidare le convenzioni.

Questa tendenza posiziona la profumeria italiana come un campo di ricerca multidisciplinare che va oltre il semplice “profumarsi”. Il profumo diventa un’esperienza sensoriale complessa, un’espressione artistica e persino uno strumento per il benessere psicofisico.

Questo salto qualitativo la colloca all’avanguardia globale.

Il Tuo Percorso nella Profumeria Artistica: come avvicinarsi a questo mondo affascinante

Avvicinarsi al mondo della profumeria artistica italiana è un viaggio lungo e profondamente personale.

Per trasformare questa passione in una vera e propria competenza, ti invitiamo a esplorare i corsi dedicati all’arte e alla scienza del profumo.

Che tu sia un semplice appassionato o un futuro professionista, i nostri programmi ti guideranno in un’esperienza formativa unica, arricchendo la tua conoscenza e affinando il tuo senso più evocativo.

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Professione naso: Chi si nasconde dietro ai profumi che indossiamo?

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Un articolo di Marco Martello

Parlare della figura del naso richiede uno sguardo attento, capace di cogliere l’essenza invisibile delle cose.
Per questo abbiamo chiesto a Marco Martello, Managing Editor & Beauty Director della rivista “The Greatest”, di raccontarcela.

Il risultato è un articolo raffinato, ricco di spunti e sfumature, che ci accompagna dietro le quinte di una professione tanto affascinante quanto poco conosciuta.

Buona lettura!


Chi è il profumiere? Di cosa si occupa? E cosa ha fatto sì che questa figura professionale ottenesse la popolarità di cui gode oggi? Vediamo più da vicino in cosa consiste questa professione e scopriamo qualche curiosità sui protagonisti dell’industria del profumo, ovvero i Maître Parfumeur.

Spesso idealizzata, la figura del naso è molto più complessa di quanto si possa credere. Dietro all’immagine stereotipata del creativo naïf, si nasconde infatti un tecnico, il cui lavoro consiste nel trovare il giusto mix di logica e intuizione, preservando l’armonia in quella che può essere descritta come l’eterna battaglia tra forze contrapposte. Proprio come un musicista, il profumiere si dedica infatti a combinare, scombinare e ricombinare tra loro le note più disparate, per dare vita a una composizione in grado di risuonare all’unisono con la nostra anima e, nel fare ciò, ricorre tanto alla sua maestria nel maneggiare le migliaia di materie prime a sua disposizione quanto al suo bagaglio culturale ed emotivo. Da ciò ne consegue che un tecnico senza doti creative avrà non poche difficoltà nel tentare di coinvolgere il consumatore sul piano emotivo, mentre un creativo senza competenze tecnico-scientifiche faticherà nel tradurre in termini olfattivi il frutto del suo lavoro di ricerca e immaginazione.

Le curiosità, così come i falsi miti, sui Maître Parfumeur non mancano, ma l’aspetto più interessante riguarda forse il rapporto che i nasi intrattengono con le fragranze. Nonostante i Maître Parfumeur dedichino la propria vita al profumo, per non alterare la percezione delle materie prime che impiegano nel processo di creazione dei loro jus si vedono costretti a non portare alcun profumo. L’unica eccezione a questa regola è rappresentata dalla composizione a cui stanno lavorando, che indossano per valutare l’evoluzione su pelle. Non si tratta però di un profumo che scelgono come propria firma olfattiva e portano ad infinitum, ma di una fragranza che li accompagna per alcuni mesi, fino a quando non arriva il momento di separarsene in maniera definitiva e farne dono al mondo.

Se quella del naso è una professione con una lunga tradizione alle spalle, l’interesse nei confronti di questa figura professionale è ben più recente. La fama di cui godono i Maître Parfumeur al giorno d’oggi è, se non altro in parte, dovuta a Frédéric Malle, nipote del creatore della Parfums Christian Dior e fondatore del marchio di profumeria artistica Éditions de Parfums Frédéric Malle. Nel porre le basi del suo progetto, questo editore di profumi si è, infatti, dato un obiettivo tanto importante quanto ambizioso: porre i Maître Parfumeur al centro della conversazione sul profumo, riconoscendo i loro meriti e scrivendo il loro nome sui flaconi delle fragranze del marchio. Alla luce di questa popolarità, alcuni dei più grandi profumieri internazionali si sono trasformati in imprenditori e hanno, per l’appunto, creato una propria collezione di fragranze, anche se non sempre con esiti favorevoli. A tal proposito, è doveroso precisare che, se non altro quando lavorano su commissione, i nasi si attengono sempre a un brief, muovendosi all’interno di un perimetro delimitato. Nel trovarsi difronte a infinite possibilità creative, devono quindi fare i conti con la paura di cui spesso profuma la libertà, proprio come un artista, un giornalista o uno scrittore. Chissà se l’Intelligenza Artificiale, già impiegata da alcuni dei grandi leader del settore, si rivelerà essere un valido alleato per superare la cosiddetta sindrome della pagina bianca.


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Marco Martello

Laureato in “Comunicazione e Psicologia” all’Università degli Studi di Milano-Bicocca e specializzato in “Fashion Direction: Brand & Communication Management” presso il Milano Fashion Institute, Marco Martello è un collezionista di fragranze, nonché un esperto di comunicazione scritta con un’esperienza pluriennale nel mondo dell’editoria indipendente. Nel corso degli anni, oltre a collaborare con testate nazionali e straniere, ha svolto l’attività di copywriter e correttore di bozze sia nel settore del luxury che in quello del fashion, ampliando le sue competenze tecniche e consolidando la sua conoscenza delle dinamiche che sottendono i processi di comunicazione contemporanei. Oggi Marco ricopre il ruolo di Managing Editor & Beauty Director della rivista indipendente “The Greatest”, e si dedica all’insegnamento nell’ambito della comunicazione di moda e beauty in alcuni tra i più prestigiosi istituti italiani

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Ftalati nei cosmetici: comprendere il loro utilizzo e la sicurezza

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Un articolo di Eva Munter e Lara Farotti

Nel settore cosmetico, alcuni ingredienti vengono periodicamente messi sotto esame, generando dibattiti e preoccupazioni. Tra questi, gli ftalati sono stati oggetto di attenzione, in particolare per il loro utilizzo nei profumi e nei cosmetici. Ma cosa sono realmente gli ftalati, perché vengono impiegati e quali sono le evidenze scientifiche sulla loro sicurezza?

Cosa sono gli ftalati e quali sono i loro utilizzi?

Dal punto di vista chimico, gli ftalati sono esteri dell’acido ftalico. Non sono esattamente un’invenzione recente: esistono da quasi un secolo e hanno visto un’impennata nella produzione dagli anni ’50, quando sono diventati un elemento chiave nella lavorazione del PVC.

Il loro impiego principale è come plastificanti, cioè sostanze che rendono le plastiche più morbide, flessibili e facili da modellare. Ma il loro utilizzo non si ferma qui: si trovano anche in adesivi, sigillanti, vernici, materiali in gomma, fili e cavi elettrici, pavimentazioni, imballaggi, dispositivi medici, smalti e persino attrezzature sportive.

A causa della loro ampia diffusione, la possibilità di esposizione agli ftalati è una tematica che ha attirato l’attenzione della comunità scientifica e delle autorità regolatorie, con l’obiettivo di valutarne l’impatto sulla salute umana e sull’ambiente.

Gli ftalati e la sicurezza: esistono rischi per la salute?

Siamo esposti agli ftalati ogni giorno, attraverso l’alimentazione, il contatto con la pelle e persino l’aria che respiriamo. Poiché non sono legati chimicamente ai materiali in cui vengono aggiunti, possono disperdersi nell’ambiente, contaminando ciò che ci circonda.

Non tutti gli ftalati, però, hanno lo stesso profilo di sicurezza. Alcuni, come il DEHP, il DBP, il DIBP e il BBP, hanno attirato l’attenzione della comunità scientifica per i loro possibili effetti sulla salute umana. Queste sostanze, infatti, sono state associate a interferenze con il sistema endocrino e a problemi di fertilità, in particolare nei maschi. Alcuni studi suggeriscono che possano influenzare lo sviluppo sessuale nei bambini maschi e aumentare il rischio di infertilità in età adulta. Per questo motivo, il loro utilizzo è stato fortemente regolamentato e, in molti casi, limitato o vietato in ambito industriale e commerciale.

Anche le donne in gravidanza e i bambini piccoli sono considerati gruppi vulnerabili all’esposizione a questi composti. Inoltre, alcuni ftalati non sono solo una minaccia per la salute umana, ma anche per l’ambiente, poiché possono accumularsi nei terreni e nelle acque, con effetti negativi sulla fauna.

Ftalati nei cosmetici: quali vengono utilizzati e con quali regolamentazioni?

Nei cosmetici commercializzati in Europa, l’unico ftalato ammesso è il Dietilftalato (DEP). Questo composto viene utilizzato in piccole quantità in alcuni prodotti cosmetici con la funzione di fissativo e per denaturare l’alcol etilico, rendendolo inadatto al consumo.

Nei profumi, in particolare, il DEP viene utilizzato prevalentemente come solvente per dissolvere altri ingredienti o per influenzare la velocità di evaporazione delle componenti volatili del profumo, contribuendo a una diffusione più uniforme della fragranza.

L’ECHA, l’Agenzia Europea per le sostanze chimiche che ha il ruolo di proteggere la salute e l’ambiente, dichiara che non è stato classificato alcun pericolo circa questa sostanza che, per altro, risulta facilmente biodegradabile (100%). Il Diethyl phthalate risulta quindi sicuro per le persone e per l’ambiente.

Ad oggi, tuttavia, risulta ancora in fase di valutazione come interferente endocrino: l’inclusione nell’elenco di queste sostanze significa che è in fase di sviluppo o è stata completata una valutazione informale dei rischi per le proprietà di interferenza endocrina. Sul sito dell’Echa è possibile consultare una tabella che, per ciascuna sostanza, indica lo Stato membro che effettua la valutazione, l’esito della valutazione e la data dell’ultimo aggiornamento della voce nell’elenco. Il DEP è stato inserito in tale elenco nel 2020 e ad oggi ancora il suo ruolo sul sistema endocrino non è stato rilevato.

Il DEP è stato ampiamente studiato e non è stato associato ad effetti negativi sulla salute umana. Il Comitato Scientifico per la Sicurezza del Consumatore (SCCS), organo indipendente della Commissione Europea, ha valutato il DEP e ne ha confermato la sicurezza d’uso nei cosmetici.

Esiste inoltre una vasta letteratura scientifica disponibile sulla sicurezza degli ftalati nei cosmetici. Citiamo la più significativa:

  • Nel 2001, i Centers for Disease Control and Prevention (CDC) hanno pubblicato un rapporto in cui non hanno rilevato un’associazione tra gli ftalati nei prodotti cosmetici e un rischio per la salute.
  • Nel 2002, il Cosmetic Ingredient Review (CIR) Expert Panel , un’organizzazione sponsorizzata dall’industria che esamina la sicurezza degli ingredienti ha scoperto che i livelli di esposizione ai ftalati nei cosmetici erano bassi rispetto ai livelli che possono causare effetti avversi negli animali.  
  • La Food and Drug Administration (FDA) statunitense ha dichiarato che, al momento, non ha prove che i ftalati usati nei cosmetici rappresentino un rischio per la sicurezza.

Perché esistono ancora dubbi sulla sicurezza degli ftalati nei cosmetici?

Le preoccupazioni derivano spesso da una generalizzazione del termine “ftalati”, senza una distinzione tra le diverse tipologie. Questo può portare a confusione e a un’equiparazione di sostanze con profili di sicurezza differenti.

È importante sottolineare che i cosmetici immessi sul mercato europeo devono rispettare normative tra le più rigorose al mondo, che prevedono valutazioni approfondite della sicurezza degli ingredienti e delle formulazioni complete.

Conclusioni

Gli ftalati sono un gruppo di sostanze ampio e variegato, alcune delle quali effettivamente problematiche. È quindi giusto che la comunità scientifica continui a monitorarne l’uso e gli effetti. Tuttavia, quando si parla di ftalati nei cosmetici, è essenziale distinguere tra quelli vietati perché dannosi e quelli autorizzati perché sicuri.

Il Dietilftalato (DEP), l’unico ftalato presente nei cosmetici europei, non è stato associato a effetti negativi sulla salute umana e il suo utilizzo è regolamentato da normative stringenti.

Per chi desidera ridurre l’esposizione agli ftalati in generale, possono essere adottate strategie mirate, come limitare l’uso di plastica monouso o fare attenzione ai materiali con cui vengono conservati e riscaldati gli alimenti. Tuttavia, per quanto riguarda i cosmetici e i profumi, le attuali evidenze scientifiche e le regolamentazioni vigenti permettono di utilizzarli con tranquillità.

Fonti:


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Eva Munter, chimica in pillole, esperto profumi

Eva Munter

Laureata in chimica organica a Bologna, oggi gestisce il canale YouTube e la pagina Instagram @chimica_in_pillole dove raccoglie le storie degli elementi della tavola periodica per una community di quasi 70.000 follower. Nata a Trento, oggi vive a Milano.

Lara Farotti

Cresciuta tra alambicchi ed essenze esotiche, porta avanti la tradizione di famiglia come General Manager di Farotti e Ateneo dell’Olfatto. Insieme alla sorella Letizia, si dedica a diffondere la cultura olfattiva in Italia e nel mondo.

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I profumi delle dive: Lady Diana e le sue fragranze indimenticabili

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Lady Diana Spencer è stata molto più che una principessa: è stata un’icona di stile, sensibilità e altruismo, capace di lasciare un segno indelebile nei cuori delle persone di tutto il mondo. Il suo stile, così raffinato e carismatico, andava oltre l’apparenza, rispecchiando la sua personalità e il suo stato d’animo.

Tra gli elementi meno noti del suo fascino intramontabile c’era il suo legame profondo con i profumi, un riflesso della sua anima gentile e della sua sensibilità.

Oggi esploreremo le fragranze che Lady Diana amava, scoprendo come queste raccontino frammenti della sua storia e della sua essenza.

Il legame profondo di Lady Diana con i profumi

L’olfatto, si sa, è il senso più legato alla memoria e alle emozioni. Per Lady Diana, i profumi non erano solo un tocco finale al suo look, ma piuttosto una componente essenziale della sua identità. Tra i suoi profumi preferiti, ritroviamo fragranze con note floreali, spesso dominate da fiori bianchi, un motivo ricorrente nella sua scelta di profumi, che riflettevano la sua grazia e la sua delicatezza.

Il legame tra Diana e le fragranze è stato raccontato anche dal Principe Harry nel suo memoir Spare. Durante una sessione terapeutica, Harry ha rievocato la presenza della madre attraverso il profumo di First di Van Cleef & Arpels, fragranza che Lady Diana amava e che, per lui, rappresentava un legame prezioso con i ricordi della madre. Questo dettaglio ci svela un aspetto intimo e profondo di Diana: il suo profumo non era solo un’emanazione del suo stile, ma anche una presenza che la rendeva indimenticabile.

Le Fragranze Preferite di Lady Diana

Diana alternava diversi profumi, ognuno capace di raccontare un lato diverso della sua personalità. Scopriamo insieme le quattro fragranze che ha amato di più e cosa hanno rappresentato per lei.

Diorissimo di Dior

Tra i profumi prediletti di Lady Diana c’era Diorissimo di Dior, un’autentica ode al mughetto. Creata nel 1956 da Edmond Roudnitska, questa fragranza è composta da note luminose e delicate che evocano un giardino di primavera. Le note di testa sono foglioline verdi e bergamotto, fresche e naturali, che lasciano spazio al cuore del profumo, dove il mughetto esplode in tutto il suo splendore. Il bouquet è arricchito da assoluta di gelsomino egiziano, lillà e ylang-ylang, per una sensazione di purezza e raffinatezza.

Diorissimo rifletteva la personalità di Diana, delicata ma anche radiosa, come un fiore che si apre al sole. Il mughetto, simbolo di speranza e fortuna, rappresentava perfettamente l’ottimismo e la grazia che Lady Diana portava con sé, anche nei momenti più difficili della sua vita.

24 Faubourg di Hermès

Se Diorissimo esprimeva la freschezza e la semplicità di Diana, 24 Faubourg di Hermès rappresentava il suo lato più sensuale e carismatico. Creata nel 1995 da Maurice Roucel, questa fragranza è come un caldo raggio di sole che si sprigiona da un mazzo di fiori bianchi e frutti. Le note di testa sono giocate sul giacinto, l’ylang-ylang e il bergamotto, a cui si uniscono la dolcezza della pesca e l’arancia. Nel cuore, un bouquet di fiori d’arancio, sambuco, gardenia e iris, mentre le note di fondo avvolgono con ambra, sandalo, vaniglia e patchouli, donando alla fragranza una scia calda e avvolgente.

Indossare 24 Faubourg per Diana significava abbracciare una sensualità sottile, un magnetismo naturale che non aveva bisogno di sforzi. Questo profumo era il suo segreto per sentirsi sicura e irresistibile, un tocco di mistero che arricchiva la sua presenza.

Bluebell di Penhaligon’s

Bluebell di Penhaligon’s era probabilmente la fragranza che meglio rappresentava la vitalità e la spontaneità di Diana. Creata nel 1978, è una fragranza verde-floreale, fresca e leggermente speziata. Le note di testa aprono con un accordo agrumato, mentre nel cuore si mescolano giacinto, mughetto, gelsomino, ciclamino e rosa. Infine, un fondo delicato di chiodi di garofano e cannella chiude la composizione, aggiungendo una sfumatura calda e intrigante.

Bluebell trasporta chi lo indossa in un bosco inglese, con le sue foglie e campanule che ondeggiano al vento. Per Lady Diana, questo profumo rappresentava un legame con la natura e con la sua parte più spensierata, simboleggiando la libertà e la freschezza dei suoi giorni lontano dai riflettori.

Arpège di Lanvin

Infine, Arpège di Lanvin era forse la fragranza più sofisticata e audace tra quelle amate da Lady Diana. Questa fragranza, creata nel 1927, appartiene alla famiglia olfattiva dei floreali aldeidici e racchiude un bouquet di fiori bianchi con una struttura audace e affascinante. Le note di testa presentano aldeidi, caprifoglio e pesca, seguite da un cuore di camelia, iris, e coriandolo. Le note di fondo includono ambra, sandalo e patchouli, che donano alla fragranza una scia calda e persistente.

Arpège rappresentava il lato più enigmatico e forte di Diana, una donna con una presenza indimenticabile e una forza interiore. Questo profumo, con il suo carattere intenso, era il simbolo della Diana più sicura e sofisticata, un omaggio alla sua eleganza innata.

Il Potere dei Profumi nei Momenti Iconici della Vita di Lady Diana

Lady Diana non ha scelto i suoi profumi solo per la vita di tutti i giorni, ma anche per momenti chiave della sua vita. Tra i profumi indossati nelle sue occasioni più importanti troviamo Quelques Fleurs di Houbigant, fragranza che Diana ha scelto per il giorno del suo matrimonio con il Principe Carlo nel 1981. Un bouquet multi-floreale, primo nel suo genere, con un cuore elegante e romantico, perfetto per una futura principessa. Il profumo, con note di tuberosa, gelsomino e fiori d’arancio, ha donato alla giovane sposa un’aria eterea e sofisticata, pronta per entrare in una nuova vita.

Un altro momento iconico è rappresentato dalla serata del celebre Revenge Dress, indossato nel 1994 per un party di Vanity Fair, poco dopo l’annuncio della separazione da Carlo. Diana scelse un tubino nero aderente, svelando forza e sensualità in un momento di grande vulnerabilità. Anche se non sappiamo con certezza quale fosse il profumo che indossava, è probabile che abbia scelto una delle sue fragranze predilette. Qualunque fosse il profumo, rappresentava il suo spirito combattivo, la volontà di rinascere, anche nei momenti più bui.

Un’Eredità Olfattiva: Tra Memoria e Ispirazione

Diana non è solo un’icona del passato: la sua bellezza e la sua eleganza continuano a ispirare generazioni. Curiosamente, il suo amore per le fragranze ha trovato un’eco nella nuova generazione reale, in particolare in Meghan Markle, moglie del Principe Harry, che ha dichiarato di amare Wild Bluebell di Jo Malone London, un profumo verde e floreale che evoca il mondo naturale tanto amato da Diana. Questa coincidenza ci ricorda come i profumi siano ponti tra generazioni, fili invisibili che legano le persone e i ricordi.

Lady Diana era una donna complessa, affascinante e carismatica, e il suo legame con i profumi rifletteva ogni sfumatura della sua personalità.

Ognuna delle sue fragranze racconta una storia, un momento, un’emozione. Attraverso i profumi, la sua memoria rimane viva, come un bouquet eterno di fiori bianchi che profuma l’anima di chi la ricorda.

La sua eredità olfattiva è un tributo alla sua bellezza interiore, al suo coraggio e alla sua grazia senza tempo.


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Odore di neve

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Oggi siamo felici di ospitare nel nostro blog un articolo scritto da Eva Munter, la mente brillante dietro la pagina Chimica in pillole!

Abbiamo voluto coinvolgerla perché crediamo che parlare di olfatto significhi anche esplorare il mondo con occhi (e nasi) diversi, e chi meglio di lei per accompagnarci in questa scoperta?

Se ancora non la seguite, rimediate subito: il suo progetto è una vera miniera di curiosità e divulgazione scientifica accessibile a tutti.

Grazie di cuore, Eva, per aver condiviso con noi il tuo sapere e la tua passione. Buona lettura!


Il telefilm Una mamma per amica ha reso celebre una frase di Lorelai Gilmore: “I smell snow”—sento odore di neve. Ma è davvero possibile che la neve abbia un odore? Considerando che la neve non è altro che acqua congelata, e che l’acqua, come sappiamo, è inodore, la domanda è legittima. Eppure, l’odore che percepiamo nell’aria quando sta per nevicare è qualcosa di inconfondibile, tanto che chi è cresciuto in un clima freddo lo associa ai ricordi più vividi dell’inverno. Ma cosa stiamo effettivamente “annusando” quando percepiamo la neve? La risposta ha più a che fare con il clima che con specifiche molecole odorose.

Il nervo trigemino

A influire su questa esperienza non è solo l’olfatto, ma anche il nervo trigemino, una struttura che non percepisce odori in senso stretto, ma che viene attivata da sensazioni fisiche come il freddo, il pizzicore o la freschezza. Infatti, è responsabile della “freschezza” che sentiamo quando utilizziamo un dentifricio alla menta o del calore che sentiamo quando mangiamo del peperoncino. Il trigemino è particolarmente sensibile ai cambiamenti atmosferici, come il freddo pungente e l’umidità che anticipano una nevicata. Quando l’aria si raffredda e diventa più umida, il nervo trigemino si attiva, inviando segnali al cervello che completano la percezione multisensoriale dell’odore di neve: non si tratta quindi di un odore, ma di una sensazione che possiamo ricondurre ad esso.

L’effetto del freddo sugli odori

Una delle prime cose da considerare è che il freddo rallenta le molecole. Quando le temperature si avvicinano allo zero—tipico poco prima che inizi a nevicare—l’attività molecolare nell’aria diminuisce. Questo significa che molti odori diventano meno intensi rispetto a quando il clima è più mite. In un certo senso, sentire “odore di neve” equivale a percepire un ambiente con meno odori del solito. Non a caso i descrittori comunemente utilizzati sono “pulito”, “fresco” o “freddo”.

Tuttavia, non basta il freddo per evocare questa particolare sensazione. In pieno inverno, per esempio, ci sono molte giornate gelide in cui non si percepisce l’odore della neve. Qual è quindi la variabile chiave? La risposta è l’umidità.

L’umidità e il naso più sensibile

Quando l’aria si prepara a una nevicata, è più umida del solito. Questo surplus di umidità è essenziale per formare i fiocchi di neve. Quando l’atmosfera raggiunge il livello massimo di umidità che può trattenere, rilascia l’eccesso sotto forma di pioggia, nevischio o, come in questo caso, neve, che cade sulla terra. Ma l’umidità non si limita a influire sul tempo: modifica anche il nostro sistema olfattivo, rendendolo più reattivo. Molte persone notano, infatti, che il naso sembra più caldo e umido proprio prima di una nevicata, una sensazione che inconsciamente associamo all’arrivo della neve.

La neve come “cattura-odori”

Abbiamo detto che l’acqua è inodore, ma chiunque abbia pulito il freezer sa che il ghiaccio può intrappolare gli odori degli alimenti conservati al suo interno. Lo stesso principio vale per la neve: cadendo, intrappola le molecole odorose presenti nell’aria. È per questo che la neve può assumere odori diversi a seconda del luogo in cui si forma e cade.

Ad esempio, nelle foreste innevate, i fiocchi intrappolano i terpeni, molecole aromatiche caratteristiche delle conifere come pini e abeti, che conferiscono un odore fresco e resinoso. Nei campi aperti, invece, la neve raccoglie odori più terrosi, legati al suolo e alla vegetazione. Nelle città, al contrario, la neve può avere un odore meno piacevole, poiché ingloba molecole legate a smog, particolato e altre sostanze inquinanti presenti nell’aria.

Un’esperienza multisensoriale

In definitiva, ciò che chiamiamo “odore di neve” è una combinazione di fattori: meno molecole che arrivano al nostro naso grazie al freddo, il nervo trigemino stimolato, un aumento dell’umidità che rende il nostro olfatto più sensibile e la capacità della neve di catturare gli odori dell’ambiente circostante. Ogni nevicata racconta una storia diversa, legata al luogo e al momento in cui avviene. Forse è proprio questa combinazione unica a rendere l’odore della neve così evocativo, tanto da farci esclamare “I smell snow”.


Eva Munter, chimica in pillole, esperto profumi

Eva Munter

Laureata in chimica organica a Bologna, oggi gestisce il canale YouTube e la pagina Instagram @chimica_in_pillole dove raccoglie le storie degli elementi della tavola periodica per una community di quasi 70.000 follower. Nata a Trento, oggi vive a Milano.


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